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domenica 4 febbraio 2007

Il Rugby Romano

Roma è sempre stata una città dove il rugby è stato protagonista; intendiamoci, mai ai livelli che le squadre del nord Italia raggiungono, ma comunque buono in relazione al fattore latitudine. Da sempre infatti si combatte una sfida impari tra le tante squadre del settentrione (Rovigo, Padova, Treviso, solo per citarne alcune) e quelle che si trovano al di sotto della Toscana, che purtroppo hanno poco seguito, pochi soldi, e una scarsa densità sul territorio.
Questo trend ha iniziato a cambiare verso la fine degli anni 90, quando una squadra romana, la Rugby Roma, già vincitrice di due scudetti in tempi remoti (1935 e 1950), forte di un ritrovato appeal verso il pubblico della capitale e uno sponsor importante a coprirle le spalle, dopo vari piazzamenti nel 2000 vinceva il campionato battendo in finale la squadra de L’Aquila. Purtroppo, subito dopo la vittoria, lo sponsor inspiegabilmente rinunciò all’accordo, lasciando un buco non indifferente nel bilancio del team; una prassi che ha ricordato a molti quella seguita dallo sponsor della pallavolo romana, che all’indomani dello scudetto (sempre nel 2000), abbandonava la squadra destinandola così al fallimento, anche se in quel caso le motivazioni erano differenti.
Dopo lo scudetto della Rugby Roma, sembrava che la scena romana avrebbe dovuto aspettare anni ed anni per vedere un’altra squadra ad alti livelli. Ed infatti così è stato. Nella scorsa stagione l’Unione Rugby Capitolina, formata abbastanza recentemente e supportata dall’alta finanza romana, dopo sei anni dall’ultima apparizione romana otteneva la promozione nel Super 10, massimo campionato italiano, dopo aver vinto tutte le partite disputate nel campionato inferiore e avendo battuto nello spareggio proprio i rivali cittadini della Rugby Roma.
Quest’anno, l’URC si sta ben comportando, e si tiene a distanza dall’ultimo posto, sinonimo di retrocessione. La speranza è che in breve tempo si possa riportare lo scudetto a Roma.

Fumetti











L'eleganza dell'animo

Herst amava con un’eleganza propria di chi, per tutta la vita, fosse stato educato solo a quello. Le sue maniere ricordavano vagamente quelle di antichi nobili francesi, pervase da una cortesia esagerata e da una pacatezza eccessiva. Più di una volta Sophie l’aveva visto intento a curare quel piccolo lembo di terra che con la tristezza del marrone delle sue piante avvolgeva la loro casa. Eppure Herst quello che faceva lo faceva con eleganza. Così il suo giardino, bruciato dal sole e dalla poca acqua che riceveva, rozzo e quasi umiliante a causa della sua nulla vivacità, veniva curato, le poche volte che Herst se ne ricordava, quasi fosse un gioiello di cui conservare la lucentezza significasse conservare il mondo. Non vi era in Herst alcuna traccia di collera o malinconia. Egli sembrava vivere in una realtà aliena in cui non ci fosse spazio per i sentimenti “comuni”. Ed effettivamente era proprio così. Herst non aveva il cuore dei suoi simili. Nelle notti d’inverno, tempestate di lampi e piogge, non provava quel senso di angoscia proprio di tutti gli uomini, nel momento in cui riconoscono la loro impotenza; nei giorni d’estate, quando la natura gli rendeva dono di tutta la propria bellezza, Herst non sentiva l’esplosione della poesia nelle proprie viscere.
Herst aveva amato una donna nella sua vita, e a questa aveva lasciato il proprio animo di umano. In una notte di cento anni prima lui e Juls avevano condiviso la forza attrattiva di una splendida alcova immersa nel mare del nord di una qualche zona terrestre. Si erano conosciuti nel porto di una zona un po’ più a sud di quella in cui avrebbero poi passato centinaia di giorni della loro vita; entrambi credevano di essere in viaggio per lavoro, ma come accade sempre ai comuni mortali, non avevano calcolato il caso. Si videro, si sorrisero, si invitarono a cena in un imbarazzante ripetere l’uno le parole dell’altra, e dopo due ore si scoparono. Lo fecero come se il mondo non avesse mai visto nessuno, prima di loro, farlo. La mattina partirono e senza rivolgersi parola si diressero nel paradiso terrestre. Herst sapeva dov’era, e Juls, in fondo, anche. Affittarono una Yatch, perché anche se i soldi non fanno la felicità, sono l’unico mezzo che permette all’uomo di fare quel cazzo che gli pare. E quando sei uno dei giornalisti più famosi del tuo pianeta e la tua compagna un’ affermata artista di soldi ne hai anche per andare in paradiso. Dopo quattro ore di viaggio finì il carburante, e lì, i due, trovarono il paradiso terrestre. Si amarono per due anni, come se il pianeta terra e l’universo non facessero altro che girare intorno al sesso di quei due amanti magici. Alcuni abitanti delle isole vicine avevano paura di quel piccolo scoglio in mezzo al mare. Alcuni dicevano che la notte gli spiriti dei due amanti prendevano il posto dei loro corpi e si univano in un amore superiore, che non era sesso, ma molto di più. Effettivamente Juls e Herst non scoparono mai di notte. Entrambi non avevano il coraggio di farlo. Herst credeva fosse un insulto, perché, diceva, nulla è più bello che il sole ed è lui che dobbiamo far impazzire di invidia ogni volta che guarderà il nostro amore. Altri indigeni del posto giurarono in seguito che negli anni in cui Juls e Herst si fermarono sull’isola il sole sembrasse offuscato. Quasi impallidisse di fronte alla potenza di un accadimento molto più forte della sua luce eterna. Quasi non potesse credere che, nel suo piccolo spazio di comando, qualcuno avesse avuto il coraggio di sfidarlo. Ma Juls morì, due anni dopo aver amato Herst ogni giorno e ogni ora. Herst la ritrovò priva dell’animo in un’alba fresca come la pioggia che il giorno prima aveva accompagnato il loro ultimo sesso. Versò una lacrima dopo di che iniziò ad asciugarsi il viso, ancora inconscio del fatto che le lacrime che si stava asciugando in realtà non stavano scendendo. L’unico pescatore che ancora aveva il coraggio di avvicinarsi a quell’isola, un vecchio abitante del porto di un altro scoglio vicino, disse che quella mattina vide una specie di aurea allontanarsi dall’isola e un’altra alzarsi al di sopra degli alberi e delle montagne per poi ridiscendere in picchiata, quasi fosse stata richiamata a casa. La prima era quella di Juls diretta in un iperuranio sconosciuto, la seconda quella di Herst diretta nei più tetri bassifondi della terra, intenta a scomparire per sempre. Quel giorno Herst perse l’animo. Da quel giorno tornò alla vita. La vita come la intendono gli umani. Trovò moglie, non l’amava, fece dei figli, non gli voleva bene, trovò lavoro, gli faceva schifo e vide tutti le persone che conosceva, ma che non erano care, morire prima di lui. Un giorno arrivò un giornalista di una Tv spagnola. Gli disse che lui era l’uomo più vecchio del mondo. E anche il più vecchio che ci fosse mai stato. Almeno ufficialmente, aggiunse con un sorriso dolciastro. Herst, che non calcolava più il suo tempo, ma solo quello dei suoi simili per esigenze di sopravvivenza, venne a sapere di avere 134 anni. Quel giorno capì che il corpo è nulla senz’animo. Gli scienziati non poterono mai parlarci. Quel giorno Herst scappò. Sull’isola in cui aveva amato per due anni l’unica donna della sua vita provò ad uccidersi in tutti i modi possibili. Non vi riuscì. Ed oggi, il sole e la luna, lo vedono ancora intento, ad intervalli di tempo regolari, cercare la morte, quasi fosse la vita…

(Piero)

LA STREET ART ROMANA

Venerdì 19 gennaio 2007 è stato presentato a San Lorenzo (Via dei Marsi) il progetto vincitore del concorso “Opere Murarie”. La mostra si sviluppa su due piani: nel primo si trova il dipinto murale vincitore del primo posto del concorso eseguito da Lucamaleonte, Sten e Lex, e nel piano inferiore si trovano alcune delle loro innumerevoli opere su tela.
La mostra è stata un fervido esempio di arte alternativa chiamata moving art: cos’è la moving art? Vi chiederete. E’ un nuovo concetto di esposizione di opere che escono dai canoni di quella che ognuno di noi, almeno credo, intende come mostra di opere. La moving art è volta alla produzione, diffusione e promozione delle attività di giovani artisti (in questo caso romani) e alla sperimentazione di progetti espositivi fuori dai normali canoni dell’arte.
Protagonisti indiscussi della mostra sono gli street artists Lucamaleonte, Sten e Lex conosciuti nell’ambito dell’underground romano. La sfida per i tre artisti è stata creare una “murata” all’interno di una pasticceria, luogo estremamente diverso da quello che è la strada. L’opera, facendo parte del progetto moving art, sarà fra due mesi sostituita da quella vincitrice del secondo posto.
Lucamaleonte, Sten e Lex oltre ad esporre le loro opere in spazi privati, usano i comunissimi muri romani per esporre le loro opere. Sono tre giovani artisti che hanno trovato, come tanti ragazzi di Roma, il loro personalissimo modo di esprimersi, in bilico tra l’illegale appropriazione di spazi pubblici e la legittima volontà di creare e di fare arte, perché è di arte che si parla, nel caotico, scuro e movimentato underground romano.

A tutti coloro che dicono che questa non è arte, Io rispondo che a mio avviso l’arte è ciò che è libero, che non ha canoni o regole da seguire, è un’immagine scaturita solo dalle emozioni che uno ha dentro e dalla sua libertà di espressione . Gli street artists scelgono come spazio per la loro espressività, le loro storie e la loro vitalità, la strada e i muri comuni. Uno di loro mi ha detto: “scrivere illegalmente ti dà quell’adrenalina e quella precisione che sai di dover mettere nel pezzo o nello stencil che crei, così ché chi passa e vede la tua opera sa chi sei, sa perché quel soggetto e sa che quel nome scritto è garanzia di stile e di arte, anche se questo non viene visto proprio da tutti” e ridendo aggiunge: “anzi quasi da nessuno!”.
Concluderei con una frase di un detto che recita: “ la tua libertà finisce quando inizia quella altrui” ed è proprio su questo sottilissimo filo che si colloca la filosofia delle opere della street arte degli street artists.

INFO:
DURATA DELLA MOSTRA: La mostra è aperta dal 19 gennaio al 18 marzo 2007
SEDE:
Moving Gallery Bocca di Dama , Via dei Marsi 2-4-6 (S. Lorenzo)
ORARI APERTURA:
dal martedì al sabato dalle 11,00 alle 19,00
SITO INTERNET: www.movinggallery.com
INFOLINE:
06 44 34 11 54

(Giorgio)

IL NODO VICENTINO: RIFIUTARE PER COMPRENSIONE, NON PER PACE

Vicenza. Una base di un’altra nazione già presente, accordi presi dal governo precedente, impegni diplomatici oramai cinquantennali, schiavitù e servilismo, dispotismo e tiranneggiante influenza. Gli ingredienti ci sono tutti. Ancora per una, triste ed esilarante, volta il nostro governo dimostra la sua debolezza, indipendentemente dalla mano con cui tiene la bandiera del “potere”, destra o sinistra. Ma qui la questione non è il governo, la sua forza, la sua capacità di interagire nei meccanismi internazionali, o la sua indipendenza dal vecchio padrone. Non ha importanza, perché qualsiasi colore avesse avuto il governo, il risultato non sarebbe cambiato: il capitalismo (riesumiamo i termini tecnici corretti) e la sua fase suprema, l’imperialismo, sono fatti di una sola medaglia; quante possano essere le facce, poi, non conta nulla. Proprio così. A Vicenza, a quanto sembra, buona parte della popolazione non vuole l’ampliamento della base, a costo di far perdere il posto di lavoro a quei milleduecento concittadini che da lì traggono nutrimento per la propria famiglia, i propri figli, cioè i propri averi. Situazione spinosa, ma la determinazione è dei popoli, mai dei loro governanti, sempre più riflessivi e disposti ad agire di propria, singolare, iniziativa. Sotto ricatto: o ampliate la base, ci dicono i nostri cari ed amichevoli “alleati”, oppure ce ne andiamo, trasferiamo tutto in Germania, e addio lavoro per quegli italiani impegnati con noi. Ora, decidete. Queste le trame della diplomazia, dietro le amicizie, si nascondono sempre i coltelli puntati tenuti da sorrisi brillanti. Ed ancora, dopo lunghe giornate, nelle quali i pacifici deputati di Rifondazione, dei comunisti italiani, dei Verdi & Co. , trepidavano attendendo le direttive inappellabili dell’amico Prodi, finalmente il Presidente si fa sentire: la base si amplierà, sempre fedeli ai nostri amici. Un pizzico di sincerità: qualcuno realmente si aspettava qualcosa di diverso? E così, in un cupo pomeriggio piovoso, mentre sentivo la notizia della discussione sulla base, il pensiero mi ritorna a temi mai più considerati, e che, purtroppo, sono ancora così vicini, agghiaccianti. L’imperialismo. Prima, citando, l’ho chiamato fase suprema del capitalismo. Qualcuno, sono sicuro, starà sogghignando, leggendo queste righe. Stolto. Assistiamo, silenti, inermi, con una certa aria di inevitabilità, al continuo, incessante tentativo di continuare una politica che vede, senza scrupoli, i primi paesi del mondo impegnati ad allargare i propri mercati, a ricercare nuove fonti di approvvigionamento fuori dai propri confini, invadendo, uccidendo, devastando, saccheggiando in nome di qualche ideale riesumato fuori dalla Storia per giustificare l’ondata, la congiuntura, di distruzione e morte di turno. Rifiutare l’allargamento della base di Vicenza deve configurarsi solo come un minuscolo passo, una goccia in mezzo al mare, che tutti dovremmo compiere: non con la speranza che il governo operi come da noi richiesto, perché ciò sarebbe andare contro le regole stesse del gioco, sarebbe scegliere una via che porterebbe al collasso stesso delle istituzioni repubblicane. Capito che, in realtà, la guerra è solo il segno inequivocabile delle profonde ferite del capitalismo, della sua, oramai, stantia vecchiaia, che, pur di sopravvivere ad ogni costo, barcolla, senza mollare, sfoderando l’ultima ferocia di cui è capace, prima del collasso internazionale che coinvolgerà tutti, dai colori dell’Africa all’opaca spregiudicatezza Americana. Rifiutare la base non nel nome della pace, che, oggi, non ha evidentemente nessuna possibilità di esistere: rifiutarla nel nome della verità, forti della comprensione strutturale che la guerra è solo un metodo per allontanare la visione della morte del sistema economico, rifiutare che le spire che oggi attanagliano l’Italia e le sue genti, noi uomini, un giorno colpiscano qualcun altro, o, peggio ancora, riescano ad impedire a noi di ribellarci, di creare un nuovo mondo realmente capace di invocare la pace e di ottenerla.

Biografie Immaginarie

Simone Famularo nacque a Piccola Capri il 21 novembre del 1988. Fin dai primi anni della sua infanzia diede mostra del suo fervore intellettuale fondando, all’età di 10 anni, la società ASPA “Agenti Segreti Per Amore”. Alle scuole medie si iscrisse all’istituto “Ettore Majorana”, intrecciando rapporti con numerose ragazze, ma impegnandosi anche in attività politiche. Trascorse questi anni nel peccato, conducendo vita lussuriosa e accompagnandosi a donne di malaffare. Finalmente arrivarono gli anni del liceo, gli anni più politici della sua vita. All’Aristofane divenne in due anni il più grande leader carismatico di sempre, entrando in contrasto con il preside Salamone. Attività, progetti, scioperi, autogestioni, occupazioni e molto altro colmarono la vita del futuro storico. Fondò il Dissidente, giornale politico-culturale, e fu sempre affiancato da fedeli compagni quali Manzari, Tullia e lo stesso Trecca. Durante l’ultimo anno di studi si ritirò dalla vita politica istituzionale per protestare contro lo strapotere del preside, lasciando l’istituto scolastico nelle mani di folli rappresentanti degli studenti. Per tutti gli anni giovanili sarà presente nel Famularo il sogno della rivoluzione, del sovvertimento dell’ordine sociale e statale. Finito il liceo si iscrisse alla facoltà di storia e contemporaneamente iniziò a scrivere la sua opera più magnificente: “Vite filosofiche”. Sposata Valeria, luce della sua vita fin dagli anni liceali, si ritirò a vita privata dopo aver raggiunto la ricchezza con il suo libro. Considerato un modello di vita da numerosi seguaci e idolatrato da una setta che si ispirò alle sue idee politiche e filosofiche, Famularo morì assassinato da un fanatico fascista all’età di 73 anni, il giorno stesso in cui Washington bombardò la Piazza Rossa, dichiarando guerra alla Russia. Nella sua casa fu trovata la sua ultima opera “dove sbagliò Marx e come il comunismo tornerà al potere”, ancora oggi giudicata la vera bibbia del pensiero comunista. Sottolineò sempre di aver dato via tutta la propria ricchezza e di aver tenuto solamente il necessario a sostentarsi. Scrisse pochi giorni prima di morire: “torno là da dove sono venuto: nell’universo. E agli amici dico di non preoccuparsi. Il vostro Dio è comunista”.

Angelo Trecca nacque a Roma il 2 ottobre del 1987. dopo un’infanzia felice, trascorsa tra gli agii della ricca casa famigliare, si iscrisse al liceo Classico “Orazio”, ma a causa del suo eccentrico carattere fu bocciato al termine del primo anno. Il 2002/2003 fu l’anno della svolta. Trecca si iscrisse all’ “Aristofane” dove avrebbe trascorso gli anni più producenti della sua attività filosofico-letteraria. Alcune testimonianze filologiche, raccolte dallo storico Famularo, parlano di una poesia d’amore recitata in un’aula di lezione durante il secondo anno “con commovente beatitudine rischiarò il grigio cielo dell’esistenza liceale de’ suoi compagni” (da “Vite filosofiche”, Simone Famularo). In questi anni il Trecca divenne una vera autorità della scuola, occupandosi del controllo del servizio d’ordine durante le autogestioni e promuovendo numerose attività e progetti tra cui una campagna di sensibilizzazione ecologica, che si poneva l’obiettivo di convincere il maggior numero possibile di persone a venire a scuola in bicicletta. Famose anche le sue lezioni di vita, espresse tramite aulici aforismi. Memorabile il giorno in cui si rivolse alla Professoressa Vicari, famosa studiosa di glottologia inglese dell’epoca, affermando “Professoressa, perché non andiamo tutti a raccogliere le mele sugli alberi?”. Nelle sue “Vite filosofiche” Famularo ci ricorda, tra l’altro, il Trecca impegnato in una giornata primaverile del terzo anno a donare un sorriso a tutto il liceo, girovagando con una corona di margherite sul capo. Il quarto anno fu quello della conversione e dell’incontro con il vero amore: Maria. Sono gli anni in cui il Trecca non avrà più dubbi sulla felicità dell’esistenza, ma soprattutto in cui matterà a punto la sua filosofia positivo-ottimista, basata sulla forte credenza religiosa. Finiti gli studi si dedicò alla ricerca di Dio, divenendo la più grande autorità teologica della storia. Morì nel 2077 all’età di 90 anni mentre riceveva in visita alcuni suoi ex-compagni di studi. Sembra che la sua ultima frase sia stata “Per arrivare alla sorgente bisogna andare contro corrente”.

(Piero)

The Velvet Underground

Non un disco. IL DISCO. Immaginate i club peggiori di tutta New York, i sobborghi più malfamati, le strade più buie, le droghe più forti, il sesso più estremo. Immaginate la voglia di vomitare, ma quella forte, dopo una sbronza; il ballo sfrenato, la testa che pesa, il cerchio alla testa, la testa che crolla all’indietro, l’ago e la vena. Ascoltate il disco. Ho reso l’idea?
Bhe pensate che questo disco è partorito da questi contesti, perla nera in un mondo sbiadito, disilluso, sfatto, apparente dove l’unico vero motivo per andare avanti è solo il bisogno di un altro “schizzo”. I Velvet Underground cantano il loro mondo, nell’unico modo in cui è possibile cantarlo, tramutando la realtà in una musica tanto sporca quanto lo è la loro vita. Camuffando dietro alle distorsioni delle chitarre e all’angoscioso tremore della viola tutte le loro paure e bisogni primari, senza tabù, con violenza e ossessione.
Dopo due anni di gavetta e censure per i testi troppo espliciti delle loro fantasie sonore incontrano in Andy Warhol il loro guru, il loro patronus. Una figura così influente e carismatica che sarà in grado di tenere le redini del gruppo e di produrre IL DISCO nel 1967 e che affiancherà a Reed e Cale il volto di Nico, bionda femme fatale, antesignana del dark, voce profonda e sguardo gelido.
Il rapporto fu sempre conflittuale fra Lou Reed e Nico che non voleva assolutamente cederle il ruolo di “prima donna” della band. La stupenda voce calda di Nico fu allora relegata in tre canzoni “Femme Fatale, All tomorrow’s Parties, I’ll be your mirror”, addirittura doveva essere lei a cantare “Sunday Morning” l’overture dove l’alone di quiete e pace dovuto allo xilofono è in antitesi con i versi pieni di inquietudine, registrata poi da Reed con una voce sovraincisa più volte avvolta di echi eterei. Il beat puro di “I’m waiting for the man” ci riporta a terra, anzi sottoterra, aspettando l’uomo che ti faccia non-vivere consegnandoti per 26 dollari la dose per passare la giornata. Ma è con “Venus In Furs” che si tocca l’apice del disco. Scena di amore sadomaso, pellicce di ermellino, stivali e frusta per una girlchild che colpisce fino a far sanguinare il suo servo Severin. Atmosfera indiana, fischio perenne, chitarra stridula-distorta, e viola; al coronare il tutto la voce ipnotica, assente, di Lou Reed. “Run, Run, Run” , dove un assolo acido devasta l’atmosfera gia martellante e asfissiante, racconta le vite parallele di molti figli dell’underground (leitmotiv anche nella solista “Walk On The Wild Side”) mentre il manifesto di Reed è decisamente “Heroin”, testo agghiacciante, nichilismo puro in un ritmo prima calmo e poi febbricitante. “Heroin, be the death of me. Heroin, it's my wife and it's my life, ha-ha Because a mainer to my vein Leads to a center in my head And then I'm better off than dead” Eroina, che tu sia la mia morte. Eroina, sei mia moglie e la mia vita, perché un ago nella vena porta al centro della testa e sto meglio che se fossi morto”. La conclusione “European Son” impazzisce dopo poco più di un minuto e per sei minuti assistiamo a un baccanale uditivo che ci stravolge gia dal primo rombo di chitarra che sembra un barrito di un elefante assetato. Un disco paradigmatico, a mio avviso semplicemente stupendo.
CURIOSITA’: La celebre banana in copertina nelle prime copie in vinile era “sbucciabile” lasciando scoperta una banana rosa ed è stata creata da Andy Warhol. Il disco fu registrato in uno scadente studio di New York in due giorni a metà del ’66.


(Carmine)